Mario Costa
Dicembre 2002
Nel '900, la vita delle forme estetiche della visione è inseparabilmente connessa all'avvento dei nuovi media tecnologici.
La luce elettrica comincia a diffondersi solo all'inizio del secolo per poi dar luogo a tutta una generazione di lampade, riflettori e proiettori.
Qui le forme da investigare sono, di volta in volta, quelle prodotte dalla luce e dall'ombra o quelle generate dai colori e dalle loro combinazioni.
Tutta una inutile ideologia mistica, supportata da fumosi presupposti sinestetici, viene mobilitata per giustificare la costruzione di macchine che, di fatto e utilmente, permettono di generare e analizzare le nuove configurazioni della visione rese possibili dalla luce artificiale.
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Bruno Corà
"Bruno Di Bello: Immagini del III Millennio"
2015
All'inizio del 2000, in una intervista, Bruno Di Bello ha dichiarato: «Sono convinto che riusciremo a trovare un linguaggio veramente di avanguardia solo attraverso un uso competente ed esperto delle tecnologie digitali». Ebbene, tra gli artisti che si sono posti questo obiettivo egli risulta certamente essere tra i più credibili e autorevoli. Non solo perché ha dato, da quel tempo, con sempre maggiore frequenza, precise e coerenti prove di un'attitudine distintiva a sperimentare una semiologia tecnologica da lui stesso introdotta nelle proprie opere attraverso l'impiego della fotografia o l'uso della luce in modi inusuali, ma poiché già dalla seconda metà degli anni Sessanta Di Bello aveva avviato quel processo scompositivo, decostruttivo e ricompositivo dell'immagine che, a base di griglie a struttura quadrata, ha preluso alla visualità della tecnologia digitale.
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Raffaella Perna
"La pittura tecnologica di Bruno Di Bello: dalla Mec-Art ai frattali"
2017
«Nessun altro genere d’arte si vede oggi costretto quanto la pittura in posizione di autodifesa. Si è giunti a parlare di fine di questo genere d’arte figurativa, di una sua regressione nell’attuale cultura rispetto alla scultura e all’architettura». Scrive così, nel 1969, Udo Kultermann nell’incipit del libro Nuove forme della pittura, in cui, a distanza di due anni dal volume dedicato alla scultura, analizza le ricerche pittoriche contemporanee alla luce delle macroscopiche trasformazioni estetiche avvenute negli anni Sessanta, periodo contrassegnato da un crescente fenomeno di smaterializzazione dell’oggetto d’arte e dalla commistione di pratiche e linguaggi espressivi diversi, a cui si lega l’emergere di una riflessione critica sul superamento dei tradizionali generi artistici. In Italia, a metà del decennio, s’intensifica il dibattito sul nuovo statuto dell’opera, sul ruolo della pittura e soprattutto sul suo rapporto con gli altri media e con la tecnologia, anche a seguito della diffusione dell’Arte Meccanica, o Mec-Art, movimento promosso da Pierre Restany, sorto inizialmente in ambito francese, ma che tra il 1966 e il 1970 conosce un’interessante fioritura nel nostro Paese. A partire da questa data si succedono infatti varie mostre in spazi privati – alla Galleria Blu e alla Galleria Apollinaire a Milano, alla Galleria Modern Agency a Napoli, alla Galleria Il Canale a Venezia, alla Galleria Ciak di Roma –, dove, insieme a Mimmo Rotella e Gianni Bertini, già presenti nelle rassegne internazionali curate da Restany, espongono artisti quali Bruno Di Bello, Aldo Tagliaferro ed Elio Mariani, a cui si deve una precoce riflessione sulla natura del medium fotografico.
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