Raffaella Perna

"La pittura tecnologica di Bruno Di Bello: dalla Mec-Art ai frattali"

2017

 

«Nessun altro genere d’arte si vede oggi costretto quanto la pittura in posizione di autodifesa. Si è giunti a parlare di fine di questo genere d’arte figurativa, di una sua regressione nell’attuale cultura rispetto alla scultura e all’architettura». Scrive così, nel 1969, Udo Kultermann nell’incipit del libro Nuove forme della pittura, in cui, a distanza di due anni dal volume dedicato alla scultura, analizza le ricerche pittoriche contemporanee alla luce delle macroscopiche trasformazioni estetiche avvenute negli anni Sessanta, periodo contrassegnato da un crescente fenomeno di smaterializzazione dell’oggetto d’arte e dalla commistione di pratiche e linguaggi espressivi diversi, a cui si lega l’emergere di una riflessione critica sul superamento dei tradizionali generi artistici. In Italia, a metà del decennio, s’intensifica il dibattito sul nuovo statuto dell’opera, sul ruolo della pittura e soprattutto sul suo rapporto con gli altri media e con la tecnologia, anche a seguito della diffusione dell’Arte Meccanica, o Mec-Art, movimento promosso da Pierre Restany, sorto inizialmente in ambito francese, ma che tra il 1966 e il 1970 conosce un’interessante fioritura nel nostro Paese. A partire da questa data si succedono infatti varie mostre in spazi privati – alla Galleria Blu e alla Galleria Apollinaire a Milano, alla Galleria Modern Agency a Napoli, alla Galleria Il Canale a Venezia, alla Galleria Ciak di Roma –, dove, insieme a Mimmo Rotella e Gianni Bertini, già presenti nelle rassegne internazionali curate da Restany, espongono artisti quali Bruno Di Bello, Aldo Tagliaferro ed Elio Mariani, a cui si deve una precoce riflessione sulla natura del medium fotografico.Come ha sottolineato Francesco Tedeschi, la sperimentazione di questi artisti è stata decisiva, in Italia, nel reindirizzare la questione del rapporto tra arte e fotografia dalla interrogazione sulla veridicità dell’immagine all’indagine sul mezzo e la sua opacità. In particolare, la ricerca condotta da Bruno Di Bello tra la metà degli anni Sessanta e gli anni Settanta è sintomatica del passaggio da un iniziale interesse verso il prelievo, la decostruzione e la rielaborazione d’immagini trouvées, all’attenzione via via più profonda nei confronti dei limiti statutari della fotografia e dei suoi rapporti con gli altri mezzi espressivi, in primo luogo con la pittura. Nell’opera di Di Bello l’indagine sullo specifico fotografico non assume infatti un carattere autoreferenziale, ma è concepita come un’esplorazione tesa a ridefinire la pratica artistica attraverso l’incrocio e l’interazione tra ambiti diversi. L’uso della fotografia – sia sotto forma di riporto su tela emulsionata, sia, successivamente, come intervento luminoso sulla superficie sensibilizzata – non è concepito come un campo di ricerca autonomo e a sé stante, ma come una strategia volta ad ampliare le possibilità espressive del disegno e della pittura, e a individuare nel contempo nuove modalità percettive. Nei Segni di luce (dal 1976), lo si vedrà, si evidenzia un uso spurio del medium fotografico: da un lato, esso è scomposto nei suoi elementi costitutivi, con un processo definibile come “analitico” sulla scorta di Filiberto Menna, dall’altro, è “agito” attraverso una gestualità performativa, che si configura come una rilettura in chiave tecnologica del dripping pollockiano, generando una frizione tra la componente manuale e quella meccanica dell’opera. «Nel momento in cui una crisi generale (politica, economica, di idee)», scrive Di Bello nel 1976, «ha congelato gli schieramenti e imbalsamato la situazione: ad ognuno i suoi ruoli, quelli col gesto e il comportamento, quelli con la pittura, quelli con la fotografia, quelli con la scrittura, mi è sembrato giusto provarci, a rimescolare le carte, cercando prima di tutto di verificare le mie abitudini visuali, di contestarle per cercare una nuova, maggiore freschezza, di avere meno familiarità con quello che sto facendo». Un intento simile animerà l’artista anche in seguito, all’inizio degli anni Duemila, quando, dopo circa un decennio di ritiro dalla scena artistica, esporrà una serie di opere realizzate mediante la più avanzata tecnologia digitale, basate sullo studio della geometria frattale.

 

Dal 1955 Di Bello frequenta l’Accademia di Belle Arti di Napoli, entrando in contatto con Guido Biasi, Lucio Del Pezzo, Sergio Fergola, Mario Persico e Luigi Castellano, con i quali, nel 1958, fonda il Gruppo 58; movimento che abbraccia le istanze della Pittura Nucleare, aprendo l’ambiente culturale e artistico napoletano ai fermenti dell’avanguardia europea, anche attraverso la redazione di “Documento Sud”, rivista sperimentale che accoglie i contributi, tra gli altri, di Emilio Villa, Eduard Jaguer ed Edoardo Sanguineti. Tra la fine degli anni Cinquanta e i primi anni Sessanta, inoltre, Di Bello è spesso a Roma, dove segue l’attività espositiva della Galleria La Tartaruga di Plinio De Martiis e della Salita di Gian Tomaso Liverani. Il contatto con il contesto artistico romano, specialmente con i pittori e i critici che gravitano intorno alle riviste “L’Esperienza moderna” e “Appia antica” – in particolare Achille Perilli, Gastone Novelli, Toti Scialoja, Cy Twombly e, appunto, Emilio Villa –, è decisivo per lo sviluppo della ricerca di Di Bello: in questo periodo l’artista s’indirizza infatti verso una pittura segnica, dove gli elementi grafici, costituiti da unità lineari, sono ripetuti modulando la superficie del quadro con un ritmo serrato e nervoso. Dal 1962 l’artista sostituisce questi segni con lettere alfabetiche realizzate mediante l’uso di stencil; anche in questo caso lo spazio dell’opera è solcato da elementi ripetuti – formati ora dai grafemi dell’alfabeto –, talora sovrapposti ai limiti della leggibilità. La qualità meccanica, quasi macchinistica nella rinuncia a una manualità diretta, di opere siffatte – si pensi ad esempio a NNZZ o MM – evidenzia la volontà di Di Bello di allontanarsi dai postulati di originarietà e autenticità del gesto artistico promossi dal Gruppo 58, a favore di una ricerca basata sulla standardizzazione del segno espressivo; in linea con le emergenti tendenze neo-oggettuali e Pop, l’artista concepisce infatti i caratteri alfabetici come moduli reiterabili, privi di accenti e umori legati alla soggettività. All’esigenza di stabilire un distacco dalla pulsionalità e dalle suggestioni di matrice tardo-surrealista proprie dell’avanguardia napoletana, risponde anche il successivo nucleo di opere realizzate da Di Bello – esposte nel 1966, in occasione della prima personale alla Galleria Modern Agency di Napoli, diretta da Lucio Amelio –, basate sul prelievo d’immagini tratte dalla stampa illustrata. Di Bello si appropria di fotografie di reportage pubblicate su “L’Espresso” o “Life”, riproducendone, pittoricamente, alcuni particolari ingranditi. La serie, intitolata ironicamente Copia dal vero, si fonda su un paradosso: l’artista non copia la realtà, ma la sua riproduzione fotografica, evidenziando come, nell’epoca postindustriale, l’incontro tra uomo e mondo sia un’esperienza necessariamente inautentica, in cui la mediazione fotografica surroga il rapporto diretto con il reale. Il titolo solleva una serie di interrogativi, aprendo l’opera a una lettura doppia: con la locuzione “copia dal vero” Di Bello intende riferirsi alla natura mimetica della fotografia – considerata abitualmente una traduzione fedele del reale –, ovvero all’atto stesso della copiatura? E soprattutto, la parola “vero” è riferita al mondo fenomenico o a quello delle immagini, la cui pervasività ha raggiunto livelli fin lì impensabili? Queste opere nascono in un momento storico (la metà degli anni Sessanta) in cui, in Italia, la stampa illustrata vive una stagione fiorente (il crollo si verifica nel  decennio successivo): per tenere testa alla televisione e attrarre il maggior numero di inserzionisti, i grandi periodici in questi anni investono nel rinnovamento della veste grafica, assegnando un peso decisivo alla fotografia. Anche per questo comprendere il ruolo della fotografia nel sistema informativo è una questione urgente per numerosi artisti italiani attivi in questi anni: significative in tal senso sono le ricerche condotte dagli autori del Gruppo ’70 o quelle dei protagonisti della Scuola Romana di Piazza del Popolo. Intitolando Copia dal vero opere basate, ad esempio, su foto di reportage legate alla guerra in Vietnam, Di Bello sembra escludere la possibilità di una relazione neutrale tra il mezzo fotografico e la narrazione della storia, ponendo in luce gli aspetti ideologici della comunicazione. A tale proposito, va sottolineato che, nella scelta del dettaglio da copiare, l’artista selezioni immagini legate ai modelli alti della tradizione pittorica: nel particolare ingrandito dipinto nella fascia inferiore dell’opera Copia dal vero tratta da “L’Espresso”, il volto morente del soldato ricalca l’iconografia del Cristo deposto. L’artista sconfessa dunque la presunta neutralità della fotografia, che imita invece immagini canoniche costruitesi nel corso delle vicende storiche, culturali e socio-politiche.

Dal 1967 Di Bello prosegue l’indagine sul medium fotografico, adottando la pratica del riporto fotomeccanico su tela emulsionata; trasferitosi a Milano, l’artista allestisce uno studio dotato di camera oscura e attrezzatura fotografica nella zona di Sesto San Giovanni, all’epoca sede di diversi atelier d’artista. Qui entra in contatto, tra gli altri, con Aldo Tagliaferro e Gianni Bertini, insieme ai quali, dal 1968, partecipa alle mostre collettive di Mec-Art. Da questo momento Di Bello avvia una sperimentazione fondata sul prelievo, la frammentazione e la rielaborazione di immagini tratte dalla sfera politica o dalla storia dell’arte: procede selezionando immagini da rotocalchi e libri, per poi ritagliarle in forma di piccoli quadrati, ricomposti secondo nuovi schemi formali. I collage così ottenuti vengono quindi fotografati, riportati su tela emulsionata e virati, prevalentemente in blu o seppia (colori che evocano la cianografia e gli antichi metodi di stampa). Tra il 1967 e il 1969 l’artista realizza diverse opere di soggetto politico, legate soprattutto alle rivolte studentesche del ’68 (Berlino Rudi Dutschke, Milano Barricate o Giovani sulle barricate), che confermano la sua attenzione per la storia contemporanea, evidente già nel ciclo Copia dal vero o nelle tele fotografiche dedicate a Moshe Dayan (1967). Contestualmente a queste opere, Di Bello avvia una rilettura della storia dell’arte, a partire dalla manipolazione fotografica dei ritratti dei protagonisti delle prime avanguardie, manifestando un’accentuata vena citazionista e un orientamento metalinguistico che segneranno anche il successivo lavoro sull’alfabeto. L’artista sottopone i ritratti di Marcel Duchamp, Paul Klee o El Lissitzky a un processo di smontaggio/rimontaggio analogo a quello condotto nelle opere citate sopra, affinché non soltanto essi acquisiscano un nuovo aspetto formale, ma sollecitino anche un diverso tempo di lettura: in Ritratto di Paul Klee (fig. 2), lavoro formato da dieci tele emulsionate ed esposto nel 1969 nella personale alla Galleria de Nieubourg di Milano, Di Bello pone in primo piano l’aspetto temporale del processo di scomposizione e ricomposizione dell’immagine, rendendo visibili i passaggi intermedi attraverso i quali la foto originaria è condotta ai limiti dell’astrazione. L’opera si fonda su una struttura che si dipana nel tempo: le tele sono disposte in modo tale che il riguardante le osservi da destra a sinistra secondo l’andamento della scrittura occidentale. L’occhio si muove dal primo pannello, dove il ritratto di Klee è integro, all’ultimo, in cui l’immagine di partenza è trasformata mediante la divisione in tasselli e il loro assemblaggio.

Il rilievo assegnato da Di Bello al carattere processuale e temporalizzato dell’opera, evidente nel  Ritratto di Paul Klee, si esprime ancora più chiaramente in Iconografia Leninana (1969): lavoro fotografico (anch’esso in mostra alla Galleria de Nieubourg) eseguito mediante un sistema di luci programmate che retroilluminano, progressivamente, le diverse sezioni dell’immagine. L’opera è dispersa; sopravvive soltanto la documentazione fotografica, realizzata da Enrico Cattaneo, ricomposta all’epoca dall’artista in un interessante montaggio di sei scatti posti in successione, al fine di esprimere, attraverso la sequenzialità delle immagini, la natura in fieri del lavoro, progettato per essere esperito nel suo evolversi.

Dall’inizio degli anni Settanta Di Bello applicherà il processo di scomposizione e rielaborazione esaminato fin qui, anche ai segni linguistici: nel settembre del 1971 l’artista inaugura la mostra Alfabeto allo Studio Marconi di Milano, dove presenta ventisei tele emulsionate, ciascuna di dimensioni 200x50 cm: i caratteri alfabetici, smembrati in tasselli quadrati mano mano più piccoli, si trasformano in entità astratte e irriconoscibili. Nell’opera riaffiora l’interesse per la natura convenzionale delle lettere dell’alfabeto, emerso nei lavori dell’inizio degli anni Sessanta: qui, tuttavia, l’artista conduce un’inedita espansione dell’opera nell’ambiente, e, soprattutto, radicalizza la precedente ricerca di un segno grafico standardizzato (avviata con il ricorso agli stencil) attraverso l’uso della fotografia. La scelta di Di Bello di adottare questo mezzo è stata posta in relazione, nel 1978, da Carlo Arturo Quintavalle alle riflessioni sulla riproducibilità dell’opera espresse negli anni Trenta da Walter Benjamin: benché l’artista – analogamente agli altri autori legati all’esperienza italiana della Mec-Art – non realizzi lavori progettati per essere prodotti in serie, l’adozione della fotografia implica di per sé la volontà di sovvertire una concezione dell’arte intesa come oggetto unico e irripetibile (quindi facilmente mercificabile). Del resto, opere quali Interrogativo sull’arte (1969), Gestaltung (1973) o Äesthetik Realität (1974) non costituiscono soltanto una ricerca sulle potenzialità iconiche della lingua, ma anche un’analisi del linguaggio specifico dell’arte e del suo sistema di valori. Nella scelta di Di Bello di scomporre e rielaborare le firme di Paul Klee, Man Ray o Piet Mondrian si evidenzia infatti una critica dei valori di autorialità dell’arte, condotta mediante, appunto, la rivisitazione della firma, segno identificativo dell’artista per antonomasia.

Ciò che emerge dall’esame delle opere di Di Bello realizzate nella prima metà degli anni Settanta – oltre all’attenzione per il contesto e il linguaggio dell’arte – è l’uso anti-naturalistico e antireferenziale della fotografia. La ricerca di Di Bello va letta alla luce dell’importante fenomeno di scambio tra l’ambito artistico e quello fotografico, accentuatosi considerevolmente in Italia proprio all’inizio del decennio, grazie al lavoro di autori quali, tra gli altri, Luca Maria Patella, Mario Cresci, Ugo Mulas, Franco Vaccari, Aldo Tagliaferro. In questo periodo emergono pratiche artistiche volte a esplorare le specificità della fotografia: la materialità, la tecnica, i processi di visione e la temporalità propri di questo medium sono oggetto di indagini analitiche tese a rilevare gli aspetti convenzionali di uno strumento ritenuto di solito trasparente. La verifica del linguaggio fotografico e la messa in discussione della sua presunta neutralità diventano dunque un punto d’incontro decisivo tra le ricerche artistiche e quelle fotografiche, favorendo un deciso slabbrarsi dei confini tra questi campi. Le sperimentazioni di Di Bello non solo partecipano, ma, come in parte si è visto, contribuiscono, già dalla metà degli anni Sessanta, alla formazione di questo nuovo orizzonte di ricerca. A partire dall’inizio degli anni Settanta l’artista prende parte alle principali esposizioni dedicate specificamente ai rapporti fra arte e fotografia, tra cui, Fotografia creativa (1970), Combattimento per un’immagine. Fotografi e pittori (1973), Fotomedia (1974) e Aphoto. Fotografia come superficie. In occasione di quest’ultima mostra – inaugurata nel novembre del 1977 allo Studio Marconi, e incentrata su sperimentazioni che si muovono a cavallo tra la fotografia e la pittura – Di Bello presenta le serie Segni di luce e Punti di luce, realizzate in camera oscura utilizzando una lampada per impressionare la superficie sensibilizzata. L’artista agisce al buio, posticipando la visione dei risultati fotografici dei suoi movimenti: «Si può uscire dal concetto di “arte visiva” se non si vede quello che si fa?»; questo è l’interrogativo da cui muove l’artista, che così ingloba nella pratica fotografica una componente aleatoria, fondata sul differimento del tempo proprio di questo medium. Da tale prospettiva, i Segni di luce possono essere posti in relazione alla concezione della fotografia espressa da Giuseppe Penone in Rovesciare i propri occhi (1970): l’artista indossa un particolare paio di lenti a contatto specchianti che riflettono tutto ciò che si muove davanti ai suoi occhi, resi ciechi dall’inserimento di queste protesi oculari. In tal modo, scrive Penone: «si dilaziona nel tempo la facoltà di vedere e si affida all’incerto esito della registrazione fotografica la possibilità di vedere nel futuro le immagini raccolte dagli occhi nel passato».

Insieme all’aleatorietà legata al lavorare al buio, le serie di Di Bello appena citate presentano un accentuato carattere gestuale: la superficie sensibilizzata restituisce infatti i segni anche del moto più lieve, registrando, come un sismografo, tutte le oscillazioni e gli spostamenti nello spazio compiuti dall’autore. All’espressività del gesto pollockiano Di Bello sostituisce tuttavia l’oggettività e la freddezza del segno fotografico, calibrando attentamente i tempi di esposizione per determinare la forma delle scritture di luce. Il segno sarà quindi sottile se il gesto è stato rapido e, se il movimento si è fatto più lento, la traccia di esso risulterà più larga perché aumenta il tempo di esposizione della tela sensibilizzata alla luce della lampada. Inizialmente l’artista traccia segni primari ed elementari come il punto, fisso o in movimento, individuando così «lo spazio e il segno senza altra giustificazione che il presentarsi autosignificante della traccia di un gesto». Quando invece “scrive” parole o frasi, l’artista ricorre a un linguaggio tautologico, come nel dittico Foto/Grafia o nel trittico Procedimento dove, disposta sui tre pannelli, campeggia la scritta “la tela fotografa/il gesto della mano/che mima il segnare”.

Nel 1978, intervistato da Roberto Sanesi, Di Bello sottolinea come nell’opera di numerosi artisti attivi in quel momento si manifesti l’esigenza di intervenire «nella pelle» della fotografia; in quest’occasione l’artista individua una genealogia, nel cui solco è possibile collocare i Segni di luce, che comprende i Calotipi di William Henry Fox Talbot, le Schadografie di Christian Schad, i Rayogrammi di Man Ray, i Fotogrammi di László Moholy-Nagy e Luigi Veronesi, fino alle Verifiche di Ugo Mulas. Il ricorso all’off-camera e l’uso esclusivo della luce per plasmare la superficie sensibile inducono infatti a stabilire una continuità con le esperienze appena menzionate; tuttavia, dalle opere di Di Bello emerge un’attenzione peculiare per gli aspetti legati alla sfera del corpo e del comportamento, ponendo, per certi aspetti, il suo lavoro in linea con le pratiche performative diffuse negli anni Settanta. La dimensione stessa delle opere di Di Bello eccede considerevolmente quella dei fotogrammi dei predecessori attivi negli anni Dieci e Venti: la misura dei suoi lavori è infatti commisurata alla scala del corpo umano e al suo agire nello spazio. La componente performativa che caratterizza il processo esecutivo dei Segni di luce si rende esplicita nell’installazione Il segno non ripetibile della luce, realizzata nel 1978 allo Studio Marconi (fig. 4), composta da una serie di Segni di luce, montati a coprire quasi interamente la parete, esposti insieme a un video, oggi irreperibile, in cui l’artista mostra il procedimento all’origine delle tele. Il video si apriva con la foto scattata nel 1920, in occasione della rassegna Dada Messe a Berlino, che ritrae George Grosz e John Heartfield mentre reggono il manifesto “Die Kunst ist tot. Es lebe die neue Maschinenkunst Tatlins”. La ripresa proseguiva mostrando Di Bello nell’atto di tracciare, con una torcia su un foglio di carta sensibilizzata, le lettere che compongono la frase “Die Kunst ist lebendig. Die Kunst ist Licht” (L’arte è vita. L’arte è luce), in un simbolico gesto di risposta ai protagonisti dell’avanguardia berlinese. Dall’installazione emergono molti degli elementi al centro della ricerca artistica di Di Bello tra gli anni Sessanta e Settanta: la volontà di riannodare i fili con la tradizione della prima avanguardia, il ricorso alla dimensione ambientale, la pratica fotografica intesa come atto performativo, l’interesse per l’aspetto iconico del linguaggio e, soprattutto, l’effrazione dei confini tra fotografia, disegno e pittura. Benché realizzati mediante un processo fotografico i Segni di luce, in fin dei conti, sono concepiti per rifondare la pittura su altre basi: sono un gesto fotografico che «si porta dentro le reminiscenze della pittura conservata e mandata a memoria, pittura anche ad occhi chiusi, pittura di luce ma al negativo».

 

La fusione tra i valori formali della pittura e la tecnologia, la propensione a relazionarsi con l’ambiente espositivo in maniera dinamica e il dialogo con l’esperienza delle prime avanguardie sono elementi che si ritrovano, a distanza di trent’anni, nella più recente ricerca di Di Bello. Dopo una fase durata oltre un decennio in cui l’artista interrompe l’attività espositiva, dedicandosi allo studio della fotografia digitale e al graphic design, all’inizio degli anni Duemila Di Bello presenta una nuova serie di quadri realizzati attraverso la tecnologia informatica: si tratta di opere, spesso di grandi dimensioni, in cui l’artista esplora le qualità estetiche della geometria dei frattali, divenuta popolare, anche al di fuori dell’ambito scientifico, a metà degli anni Settanta a seguito delle ricerche di Benoît Mandelbrot. Di Bello si avvicina a questi studi alla fine degli anni Ottanta, dopo la lettura del saggio La bellezza dei frattali. Immagini di sistemi dinamici complessi (1987) dei matematici Heinz Otto Peitgen e Peter Richter, grazie al quale intuisce il potenziale artistico dei frattali. Da questo momento Di Bello inizia una sperimentazione, tuttora in corso, su forme dotate di un’omotetia interna (ingrandendo o rimpicciolendo una parte del frattale si ottiene sempre un’immagine simile a quella di partenza). Facendo proprie le recenti scoperte matematiche e informatiche, l’artista allarga e approfondisce il suo vocabolario visivo, generando immagini sintetiche che, senza celare il loro carattere fittizio, alludono alle forme della natura e ai processi biologici della crescita: quelli creati da Di Bello sono micro e macrocosmi, a metà strada tra l’organico e l’artificiale, in cui si coglie il riflesso delle astrazioni geometriche del Kandinskij degli anni Venti o, più spesso, delle figure biomorfe di Paul Klee, artista tra i più amati da Di Bello fin dalla prima giovinezza.

Il connubio tra arte e scienza nelle ultime opere è ancor più stretto che in precedenza. Attraverso l’uso dei nuovi software Di Bello, infatti, dà vita a lavori in cui l’assenza di manualità – portata ora all’estremo – produce un universo di forme virtuali, autogeneratesi, dal carattere perturbante: pur ricordando le sembianze familiari della realtà naturale, queste opere hanno infatti l’aspetto algido e lievemente minaccioso di corpi e mondi alieni. Di Bello mette in scena una realtà parallela che sembra presagire l’avvento di un nuovo spazio, svincolato dalle leggi della geometria euclidea: in questo, a me pare, vi è un legame con la ricerca spaziale compiuta da Marcel Duchamp nel Grande Vetro, dove gli elementi che compongono l’opera sono concepiti come proiezioni di elementi appartenenti alla quarta dimensione, ancora sconosciuta per l’uomo («ogni oggetto a tre dimensioni che osserviamo freddamente è una proiezione di una cosa a quattro dimensioni che non conosciamo», racconta Duchamp a Pierre Cabanne). In maniera analoga Di Bello, nelle sue opere più recenti, sembra prefigurare la possibilità di un ordine spaziale ed esistenziale nuovo, impercettibile all’occhio umano, ma che si dischiude attraverso l’ausilio della tecnologia informatica e delle nuove teorie matematiche, accolte dall’artista come strumenti per comprendere il presente, con un occhio al futuro.

 

 

Copyright © Bruno Di Bello