Mario Costa

Dicembre 2002

 

Nel '900, la vita delle forme estetiche della visione è inseparabilmente connessa all'avvento dei nuovi media tecnologici.

La luce elettrica comincia a diffondersi solo all'inizio del secolo per poi dar luogo a tutta una generazione di lampade, riflettori e proiettori.

Qui le forme da investigare sono, di volta in volta, quelle prodotte dalla luce e dall'ombra o quelle generate dai colori e dalle loro combinazioni.

Tutta una inutile ideologia mistica, supportata da fumosi presupposti sinestetici, viene mobilitata per giustificare la costruzione di macchine che, di fatto e utilmente, permettono di generare e analizzare le nuove configurazioni della visione rese possibili dalla luce artificiale.

Thomas Wilfred, un danese trasferitosi negli Stati Uniti, dichiara, intorno al 1920, che "la luce è il solo mezzo di espressione per l'artista"; egli costruisce il "Clavilux", si esibisce proiettando luci astratte colorate, e fonda a New York un Art Institute of Light. Ma non è il solo, né il primo: Skriabin aveva costruito e fatto suonare nel 1911 il "clavier à lumière"; l'architetto americano Claude Bragdon aveva fatto qualcosa di simile al Central Park nel 1916; Giacomo Balla aveva messo in scena nel 1917 un balletto di "sole luci"; Hirschfeld-Mack, al Bauhaus, aveva costruito un'altra macchina in grado di proiettare piani colorati in movimento, e così via.

Ciò che è in gioco è, insomma, al di là di ogni presupposto teorico, più o meno improponibile, l'analisi e lo studio delle forme visive, chiaroscurali o colorate, immobili o in movimento, generate da un nuovo medium: la luce elettrica, così come concretamente messa in opera da tecnologie variamente luministiche e proiettive.

Ma alla luce elettrica bisognerà aggiungere la fotografia, e poi il cinema, e poi ancora il video, ed ora, e per il momento, l'immagine di sintesi.

Tutti questi media si rivelano in grado di generare forme proprie e, dunque, di continuare a far vivere la forma facendola ancora apparire nella sua varietà, nelle sue metamorfosi e nel suo rinnovato risplendere. E, si badi, sempre la forma, che non chiede che essere veramente e soltanto tale, non ama apparire nascosta in un rivestimento, essa non ama  l'oggetto, il referente, ma vuole che la si dia come pura forma, come quella presenza che è, di volta in volta, la sua e di niente altro.

Ed è quanto ha capito e messo in opera chi più e meglio si è avvicinato all'essenza delle nuove forme tecnologiche dell'apparire: Lissitskij, Moholy-Nagy, Man Ray… per la fotografia, e per il cinema, ancora Man Ray e Hans Richter, Werner Graeff, Oskar Fischinger, Sezenka, Fernand Leger…; qui i films "sono giochi di quadrati , di rettangoli, di spirali, giochi di luci e di colori nello spazio e nel tempo, fughe di chiaroscuri, variazioni di temi geometrici che operano solo con un insieme di qualità ottiche e dinamiche" (Karel Teige, 1929). La fotografia e il cinema si vanno insomma definendo come il nuovo dominio dell'ottico, come il campo aperto della generazione e della attivazione delle nuove forme tecnologiche dell'apparire.

In quanto al video, diffusosi soltanto negli anni '60 egli dichiara fin dal principio che le sue forme non hanno più nulla a che fare con la chimica e con la luce artificiale delle lampade: i 13 Distorted TV Sets, che Nam June Paik dà a vedere nel 1963, disvelano immediatamente la nuova essenza dell'immagine elettronica ed indicano tutto un destino al quale, fatta qualche eccezione come quella dei Vasulka, il video, aggredito da ogni parte dal soggettivismo e dalle più disparate intenzioni di semiosi, si è sostanzialmente sottratto.

Lo stesso non può dirsi per l' immagine digitale o, almeno, non lo si può dire per le immagini digitali che Di Bello ci mette sotto gli occhi.

Questo vecchio artista che, da pittore, ha amato soprattutto Klee e la sua mitogenesi della forma, e che, passato alla carta fotosensibile, ha ricoperto i muri delle gallerie d'arte con forme fatte di "segni di luce", così come Man Ray o Moholy non avrebbero mai potuto fare, si rivela adesso in grado, come pochi altri, di metterci davanti a delle vere forme sintetiche. E il fatto che queste provengano da un artista consumato su altri media ed altri supporti vale forse come una messa in guardia e un avvertimento a tutte le componenti del sistema attuale dell'arte: ogni ritorno al passato è improponibile, tutto un magma incandescente generato dai nuovi media spinge verso la superficie ed in esso risiede, con ogni probabilità, l'avvenire dell'estetico.

Il proprio dell'immagine digitale, o sintetica, ci è sembrato essere, e questo quasi venti anni fa, il suo darsi come una epifanìa ritratta in sé; l'immagine sintetica, abbiamo detto, è un nuovo reale, essa vale come una nuova entità del mondo visibile, esiste e funziona come una aseità interrompendo ogni rapporto col referente, col soggetto, con l'immaginario e con l'inconscio.

Era difficile fino ad ora pensare ad una forma così fatta. Ora non lo è più. Le forme digitali di Di Bello hanno la gelida ed inquietante consistenza di una realtà che non è la nostra e che ci sta di fronte come un estraneo non domesticabile. La aseità delle forme  viene da Di Bello pretesa e ricercata a partire dai loro fondamenti generativi matematici, e ritrovata nei frattali, cioè in quella specie di immagini intrinsecamente iterativa, tautologica ed autoreferenziale come nessun'altra.

Il meccanismo della autosimiglianza (self-similarity), che Mandelbrot chiama anche omotetia interna, e che è in grado di generare e rendere formalmente simili "tanto i minuti dettagli quanto i caratteri globali", come "un fuoco d'artificio a stadi successivi, in cui ogni stadio genera dettagli più piccoli dello stadio che lo ha preceduto", esercita su Di Bello una misteriosa  e cogente fascinazione: egli sente di essere così più vicino al vero spirito dell'avanguardia e di proseguire in quella ricerca di una oggettività estetica radicalmente desoggettivata che fu, ad esempio, la meta consapevolmente perseguita da Mondrian o da tanto costruttivismo del '900.

Ma con lui il raggiungimento tecnologico della meta si apre, di fatto, su un abisso dal fondo indiscernibile: sembra, a volte, di scorgere nelle sue immagini dei frammenti che ancora ricordano o rimandano ad una qualche rassicurante storia dell'arte, ma è proprio allora che il sentimento dell'estraneità incombente si fa più lancinante perché è proprio allora che la storia dell'arte viene massimamente posta fuori dalla sua antica essenza.

 

 

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