Bruno Corà

"Bruno Di Bello: Immagini del III Millennio"

2015

 

All'inizio del 2000, in una intervista, Bruno Di Bello ha dichiarato: «Sono convinto che riusciremo a trovare un linguaggio veramente di avanguardia solo attraverso un uso competente ed esperto delle tecnologie digitali».   Ebbene, tra gli artisti che si sono posti questo obiettivo egli risulta certamente essere tra i più credibili e autorevoli. Non solo perché ha dato, da quel tempo, con sempre maggiore frequenza, precise e coerenti prove di un'attitudine distintiva a sperimentare una semiologia tecnologica da lui stesso introdotta nelle proprie opere attraverso l'impiego della fotografia o l'uso della luce in modi inusuali, ma poiché già dalla seconda metà degli anni Sessanta Di Bello aveva avviato quel processo scompositivo, decostruttivo e ricompositivo dell'immagine che, a base di griglie a struttura quadrata, ha preluso alla visualità della tecnologia digitale.

Diversamente da tutti coloro che hanno continuato a usare la fotografia come ready made, dal 1980 in poi Di Bello non la considera più reperto reale da manipolare ma procede in modo totalmente diverso, producendo l'immagine delle sue opere ex novo, senza prelievi o inserimenti, all'opposto della modalità duchampiana e dunque liberandosi dall'ipoteca dada e neodada. Semmai ora egli deve confrontarsi con l'universo digitale, con il computer, le stampanti, le fotocompositrici a riduzione e tutto quanto si frappone tra il suo immaginario e la realtà ,influendo sull'esito dell'opera.

 

La foto digitale sposta definitivamente ogni riflessione compiuta in precedenza sulla gamma complessa di significati connessi a intenzione poetica, sguardo, comportamento del fotografo, prelievo della realtà e altro, per costituirsi quale prodotto autonomo; né documento di realtà né finzione o inganno, ma pura astrazione dovuta alle relazioni tra dimensioni di geometria frattale, forme derivate da cose e colori generati dalle manipolazioni dei software, insomma una nuova koinè linguistica per nuove immagini.

 

Un nuovo discorso sulla forma

I primi studi (1988) per realizzare immagini astratte, servendosi di un “personal  ben temperato” a detta di Di Bello, portano in evidenza geometrie e linearità che rinviano e fanno pensare alle riflessioni teoriche del Punto , linea, superficie di Kandinsky. Le forme ottenute dalla stampa laser delle immagini del computer sono quelle elementari e geometriche del cerchio e della linea arabesca che in Kandinsky appaiono come le figure più frequenti tra quelle usate nelle composizioni della metà degli anni '20, come Linea. Con il punto al limite della superficie, 1924 oppure Linea. Linea curva libera verso il punto: suono simultaneo di linee curve geometriche, 1924 o in dipinti come Alcuni cerchi, 1926.

Se questa ricerca di Di Bello succedeva al lungo periodo di ritiro dalla scena pubblica artistica (durato più di un decennio) egli però non era stato inoperoso, al contrario, convinto oppositore della concezione della riconoscibilità stilistica del segno artistico, per non ripetere le proprie cifre acquisite, aveva lavorato sodo nel corso degli anni Novanta, alla conoscenza e approfondimento della fotografia digitale e soprattutto dei sistemi informatici e telematici.

È interessante osservare come le sue ultime 'tele fotografiche', dopo aver considerato a base sperimentale la fotografia di Man Ray ((Glosse a Man Ray, 1981) ed essersi cimentato in autoritratti con la  modella su carta fotografica, sorta di rayogrammi da lui inventati, virati in blu - quasi negativi di antropometrie - rechino  anche i primi segni degli studi al computer.

Quella che si avvia, dunque, all'inizio degli anni 2000, oltre a essere una rinascita pubblica del lavoro di Di Bello, è soprattutto una fase di creazione che dischiude in lui uno sguardo nuovo sull'immagine ottenuta mediante la tecnologia digitale. Così come il matematico francese Benoit Mandelbrot aveva scoperto per puro caso - nella biblioteca dell'IBM, tra alcuni libri da mandare al macero - un volume del meteorologo Lewis Fry Richardson sulla misurazione della lunghezza delle linee costiere su scale differenti, con disegni, di cui prese nota e usò per formulare la teoria dei frattali (1975), così Di Bello, curiosando in libreria scopre casualmente il volume di Heinz Otto Peitgen e Peter Richter sulla bellezza dei frattali di Mandelbrot. Dopo avere preso conoscenza delle visualizzazioni  ottenute ed averne valutato i limiti decorativi, Di Bello, attraverso il web giunge all'indirizzo del  software olandese ultrafractal che gli permette di interagire con i meccanismi di determinazione ed elaborare con adeguati programmi di imaging le forme da portare a qualità artistica.

È a questo punto che, senza doversi intrattenere sulla vasta letteratura relativa agli studi di Mandelbrot, data per scontata la vasta diffusione della sua nozione di 'frattale', si impone una riflessione sugli esiti sino a oggi ottenuti da Di Bello, diversamente da artisti come Chevalier, Descombes, Ascott, Guimarāes, Kriesche, Nechvatal o l'italiano Nuvolo, scomparso da qualche anno, solo per fare qualche nome, tutti passati attraverso l'esperienza della visualità connessa alla geometria frattale.

A tal fine, si deve rilevare come dopo gli iniziali risultati ottenuti in opere come Fractal uno, 2002, Fractacolor, 2002, A bao a qu, 2002 e altri dove è vistosa la presenza della geometria frattale, appare evidente la volontà di Di Bello di eluderla con variazioni simmetriche perfino a sfondo figurale come in Nudo sulla spiaggia b, 1006, Scuro di pelle, 2006 o in Cardioide, 2008. Egli propende per immagini in cui fa ampio uso della curva e della circonferenza, dei forti contrasti di luce e ombra o di nebulosità e nitore; la precisione dei contorni, la dissolvenza cromatica di un colore nell'altro, si enunciano come elementi propri della tecnologia impiegata e si apprezza la lunga esperienza di Di Bello nel campo stesso di discipline come  la fotografia e il design. Qui si fa riferimento sia alla paradigmatica serie di Studi di spirali autogenerate BN, 1019, sia a quelle policrome, sia ai Con Oscar, 2015, tanto positivi che negativi.

Come repertorio di nuove forme derivate da un esercitato impiego della più avanzata tecnologa digitale, Di Bello dischiude una spazialità tanto attraente quanto sublime. Latitudini e paesaggi esistenti, oltre che nella sua opera, anche in qualche luogo infinitamente distante da quello in cui ci troviamo oggi. La spazialità di Di Bello è ancora una volta un prodotto mentale tra i più audaci, perché prefigura derive prossime venture possibili. Essa somiglia a una filosofia topologica di cui la mente intravede i concetti più estremi, le speranze più ardue, gli approdi auspicati e simulati dalla sua speculazione digitale.

Quanto alla forma che scaturisce dalle sue recenti opere, essa è prodotta mediante l'elaborazione di pattern matematici nei quali egli spesso introduce alcuni segni reali come étant donné generativi di nuove relazioni. È il caso della sua serie di cinque  grandi trittici eseguiti per la mostra al Museo MAC Niterói a Rio de Janeiro (2010) e poi resa itinerante a Napoli, in alcuni dei quali si osservano le forme derivate dalle sezioni murarie dell'edificio progettato e realizzato da Oscar Niemeyer, poste in dialogo con le forme derivate dalle geometrie frattali. «Se c'è un inizio di catena – afferma Di Bello – mici aggancio, cioè colloquio con la pianta di Niemeyer e con i miei segni.»

 

Radici della nuova complessità

Nondimeno è interessante osservare come il lavoro di Di Bello si è già misurato in altri momenti sia con la dimensione caotica che con quella omotetica. Dal mio punto di vista ciò avviene, infatti, sin dalla metà degli anni Sessanta, quando Di Bello è già fortemente proteso a considerare il comportamento caotico nella scomposizione delle immagini che prende in considerazione e che elabora spesso 'spezzandone' l'integrità, frazionandone l'uso e dunque sfiorando – ancorché in modo ancora inconsapevole – l'entità del fractus alla base dell'identità frattale.

Diviene pertanto necessario riosservare quelle sue opere degli anni Sessanta e in parte dei Settanta. Infatti, in cicli come Alfabeto(1970), ogni 'pezzo' dell'installazione composta dalle ventisei lettere  è una tela fotografica dipinta (cm 80 x 200) recante la lettera alfabetica e le sue 'progressive' frazioni-frantumazioni. Ma va osservato che se la lettera è inscritta in un quadrato, tutte le successive parti di lettera frazionata sono inscritte in quadrati più piccoli, che risultano di proporzioni esponenzialmente ridotte seguendo cioè la serie di riduzione di ogni quadrato in 1 – 4 – 6 – 64 parti.

In un esercizio funambolico compiuto l'anno precedente con l'opera Interrogativo sull'arte, 1969, Di Bello rende esplicita la sua volontà comprensiva del caos nel proprio lavoro, dimostrando come in esso si può entrare e uscire per tornar al dato di partenza, avendone perfino ribaltato il senso. Nell'opera composta di 9 'pezzi' infatti, la prima tela fotografica dipinta (cm 80 x 80) reca la scritta interrogativa L'arte?. Ma ogni tela successiva delle stesse dimensioni mostra al suo interno una suddivisione della superficie in quadrati recanti frazioni di lettere e rispondenti alla serie 1 – 4- 16 – 64 e infine 256. Da quel 'pezzo' che occupa la parte centrale dell'installazione dell'insieme delle nove tele, quasi in modo speculare e simmetrico,  si dispongono le altre tele, con la particolarità che nell'ultima la scritta recante il sostantivo “arte” non è più seguita dal segno di interrogazione, ma al contrario, appare munita del segno di esclamazione, dunque L'arte!

L'opera non solo è un mirabile esempio di eloquenza persuasiva che ben mostra la risposta al quesito, ma è altresì una costruzione ricca di regole osservate e poste reciprocamente al servizio di una complessità semiotica che celebra nel suo 'centro' il caos dei frazionamenti della parola “arte” (e dunque della sua enigmaticità) in quanto 'cuore' stesso dell'opera e della sua produzione di senso.

Un'ulteriore riflessione andrebbe poi rivolta ai procedimenti seguiti da Di Bello nella 'costruzione' di questi 'insiemi'; dal frazionamento delle lettere, al disegno cellulare in quadrati, dalle rotazioni alle inversioni di direzione e senso entro i loci in cui l'intera opera appare suddivisa.

Per tali elementi, il lavoro di Di Bello si potrebbe coniugare non solo alla grande tradizione cinquecentesca del ''teatro della memoria'' di Giulio Camillo, ma anche ad alcune esperienze di arte plastica ad essa inerenti in cui images agentes e loci hanno preso forma nella modernità, come ad esempio nell'opera di Louise Nevelson.

In questa riflessione non si può altresì trascurare il dato estetico di una elaborazione semiotica che spesso ha avuto la qualità e il merito di fornire alcune soluzioni esemplari nell'esercizio della tautologia confrontandosi in modi originali e autonomi, con l'opera di artisti come Joseph Kosuth, Robert Barry e altri. Si osservino infatti opere come Il risultato è un'immagine, 1973, Language, 1974, Mandala, 1975 e altre di quegli stessi anni.

La composizione a 'tasselli' dell'immagine, l'iterazione, la crescita in quantità morfologiche insieme ad altri aspetti che appartengono all'universo geometrico e matematico appaiono, senza dubbio, quali territori già percorsi consapevolmente da Di Bello, quasi preludio all'interesse successivamente emerso per la geometria dei frattali e delle sue proprietà e conseguenze ai fini dello sviluppo della ricerca linguistica da lui compiuta.

Se Warhol aveva colto ed elaborato l'importanza della valenza quantitativa dell'immagine, ripetendo più volte in una medesima tela l'icona della Gioconda di Leonardo o quella di una bottiglia di Coca Cola, Di Bello facendo leva sulla autosimilarità della geometria frattale e impiegandola nelle sue elaborazioni digitali ottiene un universo di morfologie visive inedite di valenza stupefacente, che indicano anche la libertà e la vastità della sua ricerca..

 

Nonostante la sua nuova immagine sia il frutto di una nuova tensione mentale ed essa si presenti algida, apparentemente priva di ogni significato o referenzialità  ideologica o sentimentale – come in x Max 2, 2015 o BWK, 2015 o infine nel Senza titolo, 2015 (cm 140 x 125) –, non mi sembra che essa si dichiari ancella o sottoposta alla tecnologia o alla scienza di cui è pur parzialmente specchio, quanto piuttosto una più avanzata manifestazione di un pensiero visivo attraversato dalle aperture che il nostro tempo annuncia, tutte suscettibili di sviluppi imprevisti che nell'opera si affacciano come domande. Ciò fino a che scienza e arte si attuino come azioni per l'umano e non contro di esso.

Vedo questa nuova fase dell'opera di Di Bello fortemente protesa con lo Zeitgeist iniziale di questo terzo millennio, eppure in realtà connessa anche con quella giovanile in cui un'analisi costante permeava l'esercizio costruttivo della forma e dell'immagine; per esempio con opere come Progetto di intervento sul mio destino n. 6, 1974 o con opere come Luna 3, 1974, che non è poi così distante da Nero pelle, 2009 o Radonaa, 2010. Dove l'occhio e la mente di Di Bello riaffiorano con il medesimo vigore inalterato dell'artista esploratore e trovatore di altri 'luoghi' e nuova bellezza.

 

 

 

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